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Circolare n.15/2019 - Isee validità 6 mesi, Cartelle con PagoPa, Nella divisione ereditario il registro al 1%, Bonus per i lavoratori senza iscrizione all'Aire
12-12-2019 |
Isee corrente con validità sei mesi, da gennaio ordinario precompilato - Cartelle, in soffitta il bollettino Rav: si passa a “Pago Pa” - Niente forfait per l’unico fornitore della partecipata - Nella divisione ereditaria il registro si conferma all’1% - Rientro dei lavoratori, bonus anche senza l’iscrizione all’Aire - Indeducibili le consulenze per un progetto non realizzato
Circolare n.15/2019 del 09.10.2019
Sommario
1. Isee corrente con validità sei mesi, da gennaio ordinario precompilato.
2. Cartelle, in soffitta il bollettino Rav: si passa a “Pago Pa”.
3. Niente forfait per l’unico fornitore della partecipata.
4. Nella divisione ereditaria il registro si conferma all’1%..
5. Rientro dei lavoratori, bonus anche senza l’iscrizione all’Aire.
6. Indeducibili le consulenze per un progetto non realizzato.
1.Isee corrente con validità sei mesi, da gennaio ordinario precompilato
(Il Sole 24 Ore del 9/10/2019, Norme e Tributi, pag. 31, Matteo Prioschi)
Welfare. Approvata la nuova DSU che recepisce le novità introdotte dal DL Crescita.
In una prima fase saranno molte le informazioni autodichiarate.
Accelerazione, nell’arco di pochi giorni, per l’attuazione delle novità riguardanti l’Isee precompilato e quello corrente.
Due giorni fa il ministero del Lavoro ha pubblicato sul sito internet il decreto direttoriale del 4 ottobre che aggiorna il modulo della dichiarazione sostitutiva unica da utilizzare per richiedere l’Isee corrente, recependo le modifiche introdotte dal decreto crescita 34/2019. Le novità riguardano validità e requisiti di accesso. Sul primo fronte, la durata dell’indicatore temporaneo viene estesa da due a sei mesi. Una decisione presa, secondo la relazione tecnica al Dl crescita, per evitare un’inutile moltiplicazione dei rinnovi dell’Isee in assenza di variazioni.
Quanto ai requisiti per beneficiare dell’indicatore corrente, con le nuove regole è sufficiente che si verifichi una riduzione della situazione reddituale superiore al 25%, oppure se si interrompe o riduce l’attività lavorativa, o ancora se si interrompe l’erogazione di un trattamento economico a carico della pubblica amministrazione.
Finora, invece, la riduzione o la cessazione dell’attività lavorativa (contratto subordinato indeterminato, a termine o comunque “flessibile”, o di tipo autonomo) ha dovuto coesistere con la variazione del 25% della situazione reddituale.
Di conseguenza, per esempio, con i nuovi requisiti se un componente di una famiglia finisce in cassa integrazione ma il reddito complessivo non cala di oltre il 25% si può comunque richiedere l’Isee corrente al posto del già esistente Isee ordinario, con conseguenti ulteriori benefici per il nucleo familiare.
Il decreto direttoriale del 4 ottobre riporta quanto previsto dall’articolo 10, comma 5 del Dlgs 147/2017, e cioè che le nuove modalità di calcolo si applicano trascorsi 15 giorni dall’entrata in vigore del provvedimento (cioè il decreto direttoriale stesso) di adozione del nuovo modulo della Dsu. Il decreto direttoriale è entrato in vigore ieri.
Tuttavia questa previsione si incrocia con quella contenuta nel decreto 9 agosto 2019 del ministero del lavoro pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 4 ottobre. Tale provvedimento stabilisce, oltre alle modalità tecniche per l’adozione dell’indicatore precompilato, che l’Isee corrente è calcolato con le nuove modalità a far data dal provvedimento di adozione della nuova Dsu. Ma il decreto del 9 agosto dovrebbe entrare in vigore 15 giorni dalla pubblicazione.
Quanto alla Dsu precompilata (si veda anche il Sole 24 Ore del 5 ottobre), il debutto è previsto dal 1° gennaio 2020, anche se in una prima fase molte informazioni saranno ancora autodichiarate dall’interessato.
Tra queste, i redditi in assenza di dichiarazione e certificazione unica, i trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari non erogati dall’Inps, l’eventuale debito residuo per mutui, depositi, conti correnti e investimenti mobiliari detenuti all’estero. L’elenco delle informazioni da autodichiarare sarà aggiornato (ridotto) in relazione all’implementazione dei sistemi di scambio di informazioni tra le varie banche dati.
2.Cartelle, in soffitta il bollettino Rav: si passa a “Pago Pa”
(Il Sole 24 Ore del 9/10/2019, Norme e Tributi, pag. 28, R. R.)
Riscossione. Avvio graduale, a regime saranno coinvolte 15 milioni di transazioni.
Addio graduale al modello Rav, le cartelle di agenzia delle Entrate-Riscossione (Ader) entrano nel nuovo sistema dei pagamenti «Pago Pa». Il sistema realizzato dallo Stato e gestito dalla nuova società «Pago Pa» Spa nell’ambito dell’attuazione dell’Agenda digitale Italiana.
Il nuovo modulo di pagamento «Pago Pa» (si veda il fac-simile pubblicato sul sito www. ilsole24ore.com) sostituirà il bollettino Rav che nel 2018 è stato utilizzato da cittadini e imprese per oltre 15 milioni di pagamenti di cartelle e avvisi ossia circa il 90% del totale delle transazioni. Mentre sono stati 1,4 milioni i versamenti effettuati agli sportelli della riscossione.
Un trend che risulta confermato anche nei primi otto mesi del 2019 con oltre dieci milioni di transazioni effettuate nei canali di pagamento alternativi, a fronte di 750mila versamenti registrati alla rete di sportelli.
Agenzia Entrate-Riscossione, dunque, gioca d’anticipo sulla stessa manovra di bilancio e si allinea a uno dei pilastri su cui Governo intende poggiare la lotta all’evasione e all’utilizzo del contante. Per i tecnici del Mef e di Palazzo Chigi, infatti, la lotta al nero passa anche per l’introduzione dell’obbligo di sistemi di pagamento tracciati, come può essere «Pago Pa», nelle transazioni con tutte le amministrazioni pubbliche.
Il modulo «Pago Pa», spiegano sempre da Ader, contiene due sezioni da utilizzare alternativamente in base al canale di pagamento scelto: una per «Banche e altri canali», con un QR code e un codice Cbill; un’altra per i pagamenti presso «Poste italiane» caratterizzato dal riquadro data matrix. L’elemento essenziale è costituito dal codice modulo di pagamento di 18 cifre che consente il collegamento alla cartella o all’atto ricevuto.
Il modulo è stampato in modalità fronte/retro utilizzabile sia per il pagamento in unica soluzione sia per il versamento in più rate in base allo specifico documento a cui sarà allegato (cartella, rateizzazione).
Come funzionerà PagoPa? Il debitore che si reca agli sportelli fisici, come posta, banca o agli sportelli di agenzia delle Entrate-Riscossione, potrà consegnare il modulo PagoPa all’operatore, che utilizzerà la sezione con i dati riferiti al canale di pagamento scelto.
Chi paga, invece, utilizzando i servizi telematici, come il portale dell’ente di riscossione o l’home banking, deve inserire il «Codice modulo di pagamento» di 18 cifre e l’importo da pagare riportati nel modulo PagoPa.
Come spiega sempre Ader, non ci sarà nessun cambiamento, per cittadini e imprese che possono continuare ad utilizzare i canali di pagamento fisici e telematici attualmente abilitati (dal sito, alle app, banche, poste, tabaccai, ricevitorie, bancomat, sportelli) versando l’importo dovuto con carta di credito o di debito, addebito in conto corrente o con le altre modalità previste.
3.Niente forfait per l’unico fornitore della partecipata
(Il Sole 24 Ore del 9/10/2019, Norme e Tributi, pag. 27, Alessandro Caputo, Gian Paolo Tosoni)
Regimi agevolati. Il controllo di fatto sulla società non consente di sfruttare la flat tax.
L'imprenditore individuale o il professionista, che siano l’unico o il principale fornitore di una società partecipata dai medesimi, possono conseguire il controllo di fatto, con la conseguente inapplicabilità del regime forfettario.
Il caso è stato analizzato dalla risposta a interpello 398/2019 di ieri a un interpello e riguardava un ingegnere, esercente una attività compresa nel codice Ateco 71.12.10 che, al contempo, deteneva una partecipazione pari al 40% in una società di ingegneria esercente attività riconducibile al medesimo codice Ateco. L’istante precisava, inoltre, che il restante 60% era posseduto da un soggetto a lui non legato.
Considerato che la partecipazione del 40% non consentiva al possessore di esercitare alcun tipo di controllo nella società, l’istante riteneva di poter applicare il regime forfettario. Infatti, a norma del comma 57 della legge 190/2014, la partecipazione in una srl ostacola l’applicazione del regime forfettario solo se, congiuntamente, si verificano due requisiti:
- il controllo diretto o indiretto della società
- e l’esercizio di una attività direttamente o indirettamente riconducibile a quella del contribuente forfettario.
Per verificare il requisito del controllo, si deve far riferimento a quanto disposto dall’articolo 2359 del Codice civile secondo cui sono considerate “controllate” le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria, le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria e le società che sono sotto influenza dominante di un’altra in virtù di particolari vincoli contrattuali.
Nel caso descritto dall’istante non era verificata alcuna di queste condizioni. Tuttavia, l’Agenzia, nella risposta, afferma che, tenuto conto che il soggetto forfettario era probabilmente il principale fornitore della società, tale circostanza integrava il controllo di fatto e, quindi, l’inapplicabilità del regime forfettario.
Nella giornata di ieri l’Agenzia ha poi pubblicato altre due risposte in materia. Con la risposta 399, viene confermato che, nel caso di svolgimento dell’attività prevalentemente nei confronti del datore di lavoro o di colui che lo è stato nei due anni precedenti, la decadenza dal regime forfettario avviene dall’anno successivo.
Nella fattispecie, il contribuente ipotizzava di chiudere la partita Iva entro la fine dell’anno 2019. Ne consegue che il regime forfettario è applicabile nel corrente periodo di imposta poiché la causa ostativa deve essere verificata alla fine del medesimo. Il caso riguardava un perito industriale che, a partire da novembre 2018 aveva iniziato una collaborazione professionale con una società emettendo parcelle verso quest’ultima e che 2019 aveva poi intensificato tale collaborazione per poi essere assunto con contratto di lavoro dipendente, chiudendo così la partita Iva. Si tratta, in effetti, di un percorso virtuoso in cui il forfettario è divenuto un dipendente.
Infine, con la risposta 397 si analizza un caso simile a quello già visto con la risposta 392 (si veda il Sole 24 Ore di ieri).
4.Nella divisione ereditaria il registro si conferma all’1%
(Il Sole 24 Ore del 9/10/2019, Norme e Tributi, pag. 30, Angelo Busani)
Comunione dei beni. Cassazione: gli effetti fiscali dopo la sentenza sul valore traslativo.
Imposta agevolata se l’assegnazione è pari alla quota di diritto.
La tassazione con l’imposta di registro del contratto di divisione potrebbe ricevere uno scossone dalla sentenza delle Sezioni unite 25021/2019 nonostante la materia trattata nella sentenza non abbia alcunché di tributario.
Con la decisione, la Cassazione ha, infatti, affermato che tanto la divisione di una comunione ereditaria, quanto la divisione di una comunione ordinaria, qualsiasi sia la data di costruzione degli immobili oggetto di divisione, devono rispettare la normativa dettata, a pena di nullità degli atti traslativi, in tema di regolarità edilizia dei fabbricati (in sostanza, è nullo il contratto che non contenga la dichiarazione di anteriorità della costruzione al 1° settembre 1967 o non contenga la menzione dei titoli edilizi che siano stati rilasciati per abilitare le costruzioni realizzate dopo il 1967).
La sentenza 25021/2019
Ebbene, con un articolato ragionamento (la sentenza è di 55 pagine), la Cassazione compie una radicale inversione rispetto all suo pluridecennale orientamento (qualificandolo come «privo di solide fondamenta») circa la natura giuridica della divisione: ad esempio, nella sentenza 7604/2018 si leggeva che doveva intendersi come «pacificamente accolta la nozione di divisione come atto avente natura dichiarativa» e identico concetto si trova espresso in una molteplicità di precedenti occasioni (ad esempio, nelle decisioni della Suprema corte 9659/2000, 7231/2006, 14398/ 2010, 17061/2011, 6942/ 2013, 26351/2017). La Cassazione riferisce che questa conclusione costituiva «una delle costruzioni dogmatiche più risalenti e resistenti della dottrina tradizionale».
L’effetto retroattivo
Ora, invece, la Cassazione afferma l’erroneità di questa idea, con un ragionamento assai semplice: se è vero che la legge (l’articolo 757 del Codice civile) sancisce l’effetto retroattivo della divisione (in altre parole, il condividente si deve considerare esclusivo titolare del bene che gli è assegnato in divisione fin dal momento in cui la comunione si è formata), ciò significa che la divisione ha un effetto traslativo e non dichiarativo: poiché, se avesse effetto dichiarativo, non ci sarebbe bisogno che la legge ne disponga la retroattività.
Infatti, se la divisione avesse una natura dichiarativa, sarebbe naturalmente retroattiva, senza bisogno che la legge lo disponga.
Trasportando, dunque, queste considerazioni nel campo dell’imposta di registro, occorre notare che la Tariffa, parte prima allegata al Dpr 131/1986 (il Tur, testo unico dell’imposta di registro) dispone l’aliquota dell’1% per gli «atti di natura dichiarativa» (identicamente disponeva il Dpr 634/1972).
Fino a oggi l’esempio principe dell’atto «di natura dichiarativa» è stata la divisione: se la divisione non trovasse questa collocazione, inevitabile sarebbe l’applicazione delle aliquote proprie degli atti traslativi (pari, a seconda dei casi, al 9 o al 15% del valore imponibile, a meno che non si applichi l’agevolazione “prima casa” e, quindi, l’aliquota del 2%).
Un appiglio, però, per continuare a considerare la divisione, almeno dal punto di vista tributario, come un atto dichiarativo, è contenuto nell’articolo 34 del Tur il quale, assumendo evidentemente come indiscutibile presupposto l’idea della natura dichiarativa della divisione, afferma che deve essere «considerata vendita», «limitatamente alla parte eccedente» la divisione con la quale al condividente sono assegnati beni di valore superiore al valore della sua quota di comunione.
Con la conseguenza che manterrebbe natura dichiarativa l’assegnazione di una “quota di fatto” di valore non eccedente il valore della “quota di diritto”.
5.Rientro dei lavoratori, bonus anche senza l’iscrizione all’Aire
(Quotidiano del Fisco del 9/10/2019, Andrea Taglioni)
L’incentivo fiscale per il rientro dei lavoratori in Italia (previsto dalla legge 238/2010) spetta anche a coloro che non avevano effettuato l’iscrizione all’Aire (Anagrafe della popolazione residente all’estero). È questa la buona notizia che arriva anche sul fronte contenzioso per effetto del decreto crescita, che ha ampliato la misura del beneficio ma anche semplificato le condizioni per accedere all’agevolazione. Quest’ultima, infatti, per effetto delle modifiche apportare dal decreto, si applica a prescindere che i lavoratori italiani siano stati iscritti all’Aire, ma purché siano stati residenti all’estero sulla base di una Convenzione contro le doppie imposizioni. E sulla base dell’intervenuto nuovo quadro normativo la Commissione tributaria di secondo grado di Bolzano con la sentenza 43/2/2019 ha ritenuto illegittimo il disconoscimento dell’agevolazione sul presupposto della mancata iscrizione all’Anagrafe della popolazione residente all’estero.
A un contribuente, cittadino italiano, ma che aveva prestato la propria attività lavorativa all’estero, veniva negato l’accesso al beneficio degli incentivi fiscali sul rientro dei lavoratori, in quanto non aveva portato ufficialmente la propria residenza in Austria, ma solo la residenza secondaria.
La normativa sulla base della quale era stata chiesta l’agevolazione prevedeva, fra le condizioni per l’accesso, che il contribuente possedesse una laurea, che la residenza fosse stata continuativamente di ventiquattro mesi in Italia e che svolgesse un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori di tale Paese e dell’Italia negli ultimi ventiquattro mesi o più e venissero assunti o avviassero un’attività di impresa o di lavoro autonomo in Italia, trasferendo il domicilio, nonché la residenza nel paese entro tre mesi dall’assunzione o dall’avvio dell’attività.
Per i giudici di appello, la tesi avanzata dal contribuente, avallata dalla commissione di primo grado, che riteneva non necessaria l’iscrizione all’Aire, è stata ritenuta corretta alla luce delle modifiche attuate con il decreto crescita.
A questo proposito la Commissione sottolinea come la natura di interpretazione autentica della novella normativa impone di ritenere superata la tesi che subordina l’agevolazione all’iscrizione all’anagrafe dei residenti all’estero. Tra l’altro, che tale presupposto fosse ostativo al benefico era stato escluso anche dalla stessa amministrazione finanziaria che, con la circolare 17/E/2017, aveva avuto modo di precisare che ciò che rileva ai fini dell’agevolazione è l’effettivo svolgimento all’estero dell’attività di lavoro.
Ma non solo. Anche la condizione della residenza fiscale fuori del territorio dello Stato per almeno due periodi d’imposta risulta soddisfatta poiché, sulla base della convenzione contro le doppie imposizioni, il contribuente era da considerarsi residente nello Stato estero avendo dimostrato che aveva un’abitazione permanente. E visto che il decreto crescita ha previsto che le nuove norme si applicano anche alle liti pendenti in ogni stato e grado del giudizio, i giudici hanno confermato l’illegittimità della pretesa.
6.Indeducibili le consulenze per un progetto non realizzato
(Quotidiano del Fisco del 9/10/2019, Roberto Bianchi)
Sono indeducibili le consulenze acquisite da una società per la realizzazione di un progetto che, di fatto, non è stato realizzato. Ciò in quanto manca il requisito dell’inerenza e del perseguimento di uno scopo produttivo connesso alle finalità imprenditoriali. A tale conclusione è giunta la Cassazione con l’ordinanza 24126/2019.
L’ente non è riuscito a dimostrare né il nesso di inerenza né le circostanze che hanno giustificato la difformità temporale tra acquisti e cessioni, non potendo assumere valenza, in tale contesto, le limitate operazioni attive perfezionate nel 2014 e nel 2015 rispetto a una situazione nella quale, dall’anno 2008 al 2012 la società (in liquidazione) non ha mai dichiarato operazioni rilevanti ai fini Iva né tantomeno ricavi commerciali. Non vi è stata, pertanto, alcuna dimostrazione della connessione fra gli acquisti e le operazioni attive indicate e tutto ciò ha fatto venir meno il diritto alla deduzione del costo e alla detrazione dell’Iva correlata.
Il collegio di legittimità ha affermato nella motivazione che «sia ai fini della deduzione dei costi in tema di imposte dirette sia ai fini di detrazione Iva, incombe sul contribuente l’onere di provare l’inerenza del bene o del servizio acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o del servizio all’esercizio dell’attività medesima» e «mentre le cessioni di beni da parte di società commerciali sono da considerare in ogni caso (cioè senza eccezioni) effettuate nell’esercizio dell’impresa, ai fini della detraibilità dell’imposta è onere di chi l’invoca provare che le operazioni passive sono state effettivamente compiute nell’esercizio dell’impresa, e cioè in stretta connessione con le finalità imprenditoriali» in quanto «un tale accertamento deve essere compiuto non già in astratto bensì in concreto, e va rapportato all’oggetto sociale».
Pertanto, relativamente alle operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, risulta «detraibile esclusivamente l’Iva relativa all’acquisto di beni necessari per l’esercizio vero e proprio dell’impresa, dall’imprenditore effettivamente destinati alla realizzazione degli scopi produttivi programmati, e il requisito dell’inerenza dell’acquisto all’esercizio dell’impresa va identificato mediante raffronto tra l’operazione passiva e quelle attive, dovendo essere cioè provata la strumentalità della prima rispetto a queste ultime, già compiute o anche soltanto programmate e con valutazione - quella della strumentalità di un acquisto rispetto all’attività imprenditoriale o professionale - da effettuarsi in concreto».
L’origine dell’inerenza è pertanto individuabile nel medesimo sistema di imposizione sul reddito il quale, correlando i componenti economici a una fonte legalmente qualificata, necessita della statuizione di una clausola generale in grado di decretare il menzionato collegamento. Tale clausola è individuabile nella relazione di causa/effetto dei singoli componenti economici rispetto all’attività che costituisce la fonte del reddito ed è tale da permettere di considerate i componenti elementari concretamente correlati all’esercizio dell’attività medesima.
Da tale principio scaturisce la correttezza dell’affermazione per la quale la possibilità di dedurre i componenti negativi di reddito è legata all’esigenza di misurare la capacità economica del presupposto di imposizione e pertanto il reddito d’impresa. In assenza di questo legame con l’attività, tali poste non hanno alcuna possibilità essere reputate inerenti.
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